Tribunale di Viterbo, Giudice del lavoro dott. Mauro Ianigro, Ordinanza 28 giugno 2017

Ai fini della scelta del personale da licenziare con licenziamento collettivo, oltre che ai fini dell’individuazione dell’ambito aziendale sul quale intervenire, occorre fare applicazione delle “esigenze tecnico produttive e organizzative”. D’altro canto, in mancanza di accordi sindacali la scelta va effettuata utilizzando tutti i criteri legali di selezione in concorso tra loro e anche qualora l’azienda abbia individuato un più ristretto ambito d’intervento rispetto al complesso aziendale, la selezione va operata tra tutti i dipendenti dell’azienda, salvo comprovate esigenze che rendano impraticabile qualsiasi comparazione e impongano di limitare la selezione tra gli addetti all’ambito predeterminato dall’azienda.


Corte d’appello di Ancona 20 aprile 2017 n. 27, Presidente estensore: E. Cetro – Enpaf (Avv. A.D.S.) c. Dott.ssa C. R. (Avv. A. A.), (riforma Trib. Ancona 22 aprile 2015)

Contribuzione previdenziale all’Ente nazione previdenza e assistenza dei farmacisti (Enpaf) – contribuzione dovuta – beneficio della riduzione contributiva ex art. 21 comma 1 Regolamento previdenza e assistenza Enpaf – figlio di titolare di impresa familiare esercente l’attività di farmacista – criteri per l’imputazione dell’obbligo

La previsione contenuta nell’art. 21 comma 1 Regolamento previdenza e assistenza Enpaf che prevede il beneficio della riduzione contributiva non si applica all’iscritto all’albo dei farmacisti che pur esercitando altra attività lavorativa (nella fattispecie di dipendente pubblico di ASL), è figlio di farmacista che esercita l’attività come impresa familiare. Da ciò discende l’obbligazione di pagamento della quota intera di contribuzione, in luogo di quella ridotta.

1. Il sorgere dell’obbligazione in ragione della sola appartenenza all’albo professionale. – 1.1. La differente regolamentazione tra Casse dei liberi professionisti. – 2. Le ipotesi di riduzione della contribuzione dovuta in ragione dello svolgimento di altre attività – 3. L’attività professionale svolta nella forma dell’impresa familiare. – 4. La quantificazione della contribuzione dovuta alla luce delle somme riconosciute a titolo di collaboratore nell’impresa familiare. – 5. Sul maggior valore dovuto all’incremento patrimoniale.


(Commissione Tributaria Provinciale di Ancona, 03.01.2017, n. 19 del 2017, Casa di Riposo O.A.M. c/Agenzia delle Entrate)

 

E’ illegittima la ricostruzione dei verificatori sulla base di presunzioni ignorando quanto documentato dagli atti da cui risulta che la ditta C. è incaricata di fornire l’assistenza infermieristica alla ricorrente a prescindere dalle presenze di alcuna struttura o organizzazione aziendale.


Tribunale di Ancona, Giudice del Lavoro, 12.08.2016, n. 3777 ( F. c. M.L.P.S.)

(art. 700 c.p.c.; art. 55 bis co. 2, 3, 4 d.l.vo. 165/2001)

Il procedimento disciplinare a carico del dipendente pubblico per infrazioni di maggior gravità (sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni) deve concludersi, ai sensi dell’art. 55 bis co. 4 d.l.vo 165/2001, entro 120 giorni, che decorrono, in ogni caso, dalla data di prima acquisizione della notizia di infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il di pendente lavora. La violazione di tale termine comporta, per l’amministrazione, la decadenza dall’azione disciplinare.

Nel caso di specie, il lavoratore si è rivolto al giudice affinché disponesse, in attesa della pronuncia di merito, la sospensione provvisoria, ex art. 700 c.p.c., della sanzione disciplinare infertagli, ossia la sospensione per sei mesi dal servizio e dalla retribuzione, deducendo, a titolo di fumus boni iuris, l’intervenuta decadenza dell’amministrazione dal potere disciplinare, per decorso del termine di chiusura del procedimento e, a titolo di periculum in mora, la necessità della retribuzione per mantenere una condizione di vita dignitosa. Il Tribunale ha emesso il provvedimento cautelare, ritenendo sussistenti entrambi i presupposti del fumus e del periculum. In particolare, quanto a quest’ultimo, il magistrato ha ritenuto plausibile che la mancanza di retribuzione per sei mesi incidesse sulla sostenibilità economica delle esigenze primarie del lavoratore, date le circostanze concrete concomitanti, ossia il livello retributivo non esorbitante, il dovere di contribuire al mantenimento dei figli, la convivenza con la madre anziana e bisognosa di cure e un documentato ricorso al prestito, per indisponibilità di congrui risparmi.


Tribunale Ordinario di Ancona, Giudice del Lavoro, 11.06.2016 n. 2801 (F. c B. Srl)

(art. 4 l. 604/1966; art. 18 co. 2 l. 300/1970)

Non sussiste il giustificato motivo oggettivo del licenziamento per soppressione del posto di lavoro se non risulti l’effettiva abolizione del posto, ma solo una riduzione del numero dei turni nel relativo settore produttivo; se, inoltre, risulti un contestuale aumento del numero di ore e del numero di unità in altro settore produttivo dell’azienda; se, ancora, risulti che non si è provveduto al repechage adducendo solo una generica inesperienza del lavoratore licenziato in relazione agli altri settori produttivi, a fronte della generica polivalenza degli altri addetti al reparto.

Nel caso di specie, il licenziamento non appare solo privo di giustificato motivo oggettivo per le ragioni di cui sopra, ma, altresì, discriminatorio, per l’affiliazione al sindacato FIOM dei quattro lavoratori contestualmente licenziati, elemento confortato da altri fattori significativi, tra i quali il fatto che, nell’individuare i lavoratori da collocare in CIG, su 67 dipendenti il datore di lavoro ne ha scelti solo 20 tutti affiliati al sindacato FIOM. Il giudice, conseguentemente, ha dichiarato la nullità del licenziamento e ordinato la tutela risarcitoria senza reintegra, dal momento che il lavoratore licenziato risulta alle dipendenze di altra azienda. l. 300/1970


Tribunale di L’Aquila, Giudice del Lavoro, 1.06.2016 n. 1593 (M. c E. Srl)

(art. 2096 c.c.; art. 18 co. 4, 5, 6 e 7 l. 300/1970)

Il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova è inefficace per mancanza di motivazione e giustificazione, ai sensi dell’art. 18 c. 6 l. 300/1970, qualora la clausola relativa al patto di prova non risulti da atto scritto, posto che l’art. 2096 c.c. ne richiede la forma scritta ad substantiam. Nel caso di specie, la clausola relativa al patto di prova è nulla oltre che per mancanza di sottoscrizione delle parti anche per mancanza di oggetto e giustificazione, essendo assente la specifica indicazione delle mansioni assegnate al ricorrente. Il contratto di assunzione a tempo indeterminato la cui clausola sul patto di prova risulti nulla determina la definitiva assunzione del lavoratore a tempo indeterminato. Al licenziamento che risulti non solo privo di motivazione, per la nullità della clausola relativa al patto di prova, ma anche privo di giustificazione, per la mancata adduzione della sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, si applica la tutela reale piena, anziché quella meramente risarcitoria, ex art. 18 commi 4, 5 o 7 l. 300/1970.


Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 5072, pubblicata il 15 marzo 2016, potrebbero aver messo la parola fine all’annoso contenzioso che riguarda decine di migliaia di dipendenti precari della pubblica amministrazione, i cui contratti a tempo determinato sono stati ripetutamente prorogati e/o rinnovati.

Viene infatti ribadito il principio costituzionale – contenuto nell’art. 97 della Carta fondamentale – del concorso come via ordinaria per accedere alla P.a. e che tale norma impedisce la stabilizzazione del personale precario: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato, posto dall’art. 36, comma 5, d, lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n, 183, e quindi nella misura pari a un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criterio indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604”.

Questo Studio non ritiene l’intervento delle Sezioni Unite in sintonia con quanto previsto nell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, per cui ci si attiverà per nuove azioni presso la Corte di giustizia europea. In ogni caso si ritiene che le richieste risarcitorie di importo superiore alle 12 mensilità siano comunque possibili qualora il lavoratore dimostri che le chance di lavoro che ha perso a seguito dei reiterati contratti a termine posti in essere in violazione di legge gli abbiano provocato un danno patrimoniale più elevato.


(Suprema Corte di cassazione, III Sezione Civile, Sentenza n. 1323 del 26 gennaio 2016)

La III sezione civile della Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia numero 1323 del 26 gennaio 2016 ha ribadito i principi che sottendono alla successione legittima. Con la presente, il richiamato giudicante ha accordato, ad un erede, il diritto al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento della madre, purtroppo defunta.Il decisum è particolarmente interessante sia per il tema e sia per la concreta e diffusa applicazione in tali rapporti giuridici di natura patrimoniale. Il caso pertineva all’accoglimento da parte di un Tribunale della richiesta della figlia erede di una donna, purtroppo defunta, di vedersi devolute, per intero ed esclusivamente, le somme dell’indennità di accompagno della madre, in quanto si era occupata della stessa fino al triste momento del decesso. Su tale considerazione, il fratello, nel medesimo status di erede, ha impugnato il provvedimento, lamentando la lesione del proprio pari diritto, su tali somme. La citata pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha accolto le censure di quest’ultimo. Secondo tale interpretazione, applicando, i principi giuridici che sottendono alle situazioni ereditarie, il Supremo giudicante ha ritenuto di poter accogliere la citata domanda in quanto i diritti degli eredi devono essere divisi, secondo il nostro codice civile, in parti uguali, fra gli stessi. In buona sostanza fra i due consanguinei vi è simmetria e parità nei diritti a contenuto patrimoniale per ciò che riguarda i beni del de cuius.

Quindi non si è sottovalutato il diritto di uno in favore di un altro, bensì si è ricondotto ad equità , un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale.

Pertanto la pronuncia è particolarmente interessante in quanto applica, al caso di specie, quanto più volte espresso nei principi del nostro ordinamento giuridico, in tema di rapporti ereditari, il quale conferma tale impostazione.

 

 


Tribunale di Ancona, Sezione Lavoro, 13.1.2016, n. 2

(art. 53, d.lgs. n. 165 del 2001; artt. 60 ss. d.p.r. n. 3 del 1957; art. 1, co. 57 ss. l. n. 662 del 1996)

E’ illegittimo il provvedimento dell’Amministrazione che non consente al dipendente pubblico in regime di lavoro part time al 50% lo svolgimento di altra attività di natura occasionale ed a titolo gratuito, purché non sia in conflitto di interessi, anche potenziale, con l’attività istituzionale dell’Amministrazione datrice di lavoro.


(d.lgs. n. 286 del 1998 e s.m.i. – c.d. T.U. sull’immigrazione)

 “Il decreto prefettizio di espulsione di un cittadino straniero per violazioni del d.lgs. n. 286 del 1998 e s. m. i., l’accertamento delle quali si basa su dichiarazioni rese dallo straniero alla autorità di P.G., va annullato qualora risulti provato che tali dichiarazioni possono essere erronee, in quanto frutto di una non corretta conoscenza della lingua” (Giudice di Pace di Ancona – 12 aprile 2006; Dott.ssa E. Parlato).


(art. 3 legge 407/1990; art. 12 legge 412/1991; art. 13 legge n. 118/71) 

 La Corte di Appello di Ancona ha stabilito che non vi è divieto di cumulo tra rendita Inail ed indennità di accompagnamento e/o pensione di invalidità ex art. 13 legge n. 118/71 quando il beneficiario sia totalmente inabile al lavoro. In particolare, la Corte ha precisato che il divieto di cumulo tra prestazioni previdenziali  e  prestazioni assistenziali per invalidità da causa di servizio o lavoro ai sensi dell’art. 3 della legge n. 407 del 1990 non opera, in forza del disposto dell’art. 12 della legge n. 412 del 1991, per quelle erogate ai ciechi civili, ai sordomuti e agli invalidi totali; pertanto è ammessa la coesistenza tra tali prestazioni pensionistiche e quelle di carattere diretto, concesse a seguito di invalidità contratte per causa di guerra, di lavoro o di servizio, tra cui rientra la pensione di invalidità riconosciuta dall’Inps (v. Cass. n. 5359/2002).


Tribunale di Ancona, Giudice del Lavoro, 14.10.2015, n. 442 (F., L., Z. c I. Srl)

(art. 7 l. 300/1970; art. 2697 c.c.)

Poste le forme previste dalla legge per l’espletamento del procedimento disciplinare (contestazione dell’addebito al dipendente, audizione dello stesso, istruttoria, comunicazione successiva), è illegittima la sanzione disciplinare comminata quando, dall’istruttoria, non emergono elementi di prova circa l’inadempimento imputato al lavoratore.

Nel caso di specie, il Giudice ha dichiarato l’illegittimità della sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione impartita ai lavoratori, ricordando che l’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti di fatto che hanno condotto all’applicazione della sanzione disciplinare spetta al datore di lavoro, sicché la carenza o l’insufficienza o, ancora, l’equivocità degli elementi probatori non può che gravare in negativo sulla fondatezza della pretesa, e ha annullato i provvedimenti disciplinari, condannando il datore a corrispondere le retribuzioni trattenute a titolo di sanzione.


Tribunale di Ancona, sezione G.I.P. e G.U.P., 15.09.2015, n. 586 (C. c P.M.)

(art. 18 R.D. n. 773/1931 – T.U.L.P.S.; art. 340 co. 2 c.p.; art. 442 c.p.p.; art. 530 co. 2 c.p.p.)

Tra i casi in cui il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di assoluzione rientra l’ipotesi in cui, ex art. 530 co. 2 c.p.p., manchi, sia insufficiente o contraddittoria la prova che l’imputato abbia commesso il fatto di cui è accusato. Nel caso di specie, il tribunale dorico, accolta l’istanza di rito abbreviato, si è trovato a dover decidere sulla sussistenza della responsabilità penale dell’imputato per il reato di interruzione di servizio di pubblica necessità e volontaria omissione di informazione, alla Questura, circa le modalità e i luoghi di una manifestazione di lavoratori culminata con il blocco della stazione ferroviaria. Il giudice ha assolto l’imputato per non aver commesso il fatto, ritenendo che dagli atti utilizzabili nel procedimento non derivassero elementi di prova circa il suo coinvolgimento nella decisione della occupazione dei binari, risultando, al contrario, quest’ultima il frutto di una determinazione estemporanea, non programmata, assunta ed eseguita spontaneamente dai lavoratori.


Tribunale Ordinario di Ancona, 6.08.2015, n. 1270 (P. c P.M.)

(art. 18 R.D. n. 773/1931 – T.U.L.P.S.; art. 530 c.p.p.)

Il Tribunale dorico, nel caso di specie, si è trovato a dover decidere sulla sussistenza della responsabilità penale dell’imputato, componente dell’RSU, per non aver dato preventiva comunicazione alla Questura dell’intenzione di manifestare con i lavoratori in corteo. Sulla base delle testimonianze degli agenti di Polizia e dell’interrogatorio dell’imputato, il giudice ha ritenuto che si potesse evincere con chiarezza solo la conoscenza da parte dell’accusato della programmazione di uno sciopero e non anche la sua conoscenza circa le modalità di svolgimento della manifestazione, essendo al contrario emerso che la determinazione di muovere in corteo era stata estemporanea e che l’imputato aveva tentato di contenerlo, per evitare che degenerasse. Pertanto, il giudice ha pronunciato l’assoluzione per mancata commissione del fatto.


Trib.Ancona, Sez.Lav., Dott.ssa A.Sbano, 20 maggio 2009

(art. 28 Stat. Lav.) 

 “La tesi datoriale dell’impossibilità del ricevere la prestazione si scontra con il dato obbiettivo e non contestato dell’avvenuta accettazione della prestazione in tutti i precedenti scioperi attuati dalla FIOM e da altre sigle, eseguiti con le medesime modalità di quelli svoltisi in data 16 e 19 gennaio.

Risulta, infatti, che scioperi con identiche modalità a singhiozzo siano stati indetti negli anni 2006, 2007 e 2008 senza che mai i lavoratori siano sttati liberati con conseguente accettazione delle prestazioni lavorative offerte negli intervalli.”

E pertanto va dichiarata “l’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro costituito dalla liberazione dei lavoratori aderenti allo sciopero del 16 e 19 gennaio 2009” e và ordinato”al datore di lavoro di pagare le retribuzioni ai lavoratori per il tempo che hanno offerto la loro prestazione lavorativa illeggittimamente rifiutata”.


(D.lgs. n. 66 del 2003 – artt. 131, 132, 137, 190 CCNL Terziario distribuzione e servizi)

 Il lavoratore ha diritto a non prestare l’attività lavorativa durante i giorni festivi infrasettimanali percependo egualmente la retribuzione. Infatti il datore di lavoro non ha facoltà di imporre unilateralmente il lavoro nelle festività infrasettimanali in relazione alle esigenze dell’azienda, giacchè il lavoratore senza il suo consenso non può essere privato del godimento del riposo nelle suddette festività.

Il semplice richiamo contenuto nell’art.137 del contratto collettivo alla retribuzione prevista per il lavoro straordinario all’art. 132 CCNL per la determinazione del compenso spettante in caso di lavoro effettuato nei giorni festivi infrasettimanali non costituisce elemento sufficiente per ritenere che tutta la normativa sul lavoro straordinario sia stata estesa da tale clausola contrattuale al lavoro prestato durante le festività infrasettimanali.  (Tribunale di Ancona – Sezione Lavoro – 23 giugno 2009; Giudice Dott.ssa T. De Antoniis).


(Direttiva 1999/70/CE – artt. 1, 4, 5 d.lgs. n. 368 del 2001 – art. 36, d.lgs. n. 165 del 2001 – art. 18, co. 4 e 5, legge n. 300 del 1970)

 La stipulazione di contratti a termine, nel settore privato come nel settore pubblico, deve avvenire nel rispetto dei principi dettati oltre che dalla disciplina nazionale anche da quella comunitaria, che è costituita “non solo dalle norme di diritto positivo dettate dai soggetti legiferanti ma anche dalla giurisprudenza dell’organo giurisdizionale”.

In particolare, al fine di evitare discriminazioni ed abusi nell’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili, i dettami comunitari prevedono che la violazione della normativa in materia di contratti e rapporti a termine comporti l’irrogazione di sanzioni dotate di idonea efficacia dissuasiva.

L’ordinamento nazionale può prevedere che la sanzione prevista nel settore pubblico sia diversa da quella prevista nel settore privato e comportare il risarcimento del danno in luogo della trasformazione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato, a patto, tuttavia: che abbia effettiva efficacia dissuasiva; che non abbia conseguenze di minor favore rispetto al settore privato (principio di equivalenza); che non renda impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (nel caso di specie tutela avverso l’illegittima apposizione del termine).

Dovendo individuare un parametro di calcolo del risarcimento del danno derivante dall’illegittima stipulazione di contratti a termine da parte della Pubblica Amministrazione che adegui il risarcimento alla perdita del lavoro e che sia rispettoso degli ora enunciati dettami comunitari, viene in considerazione il meccanismo previsto dall’art. 18, co. 4 e 5, legge n. 300 del 1970, che, “al di là delle discettazioni sulla natura giuridica, prevede comunque delle obbligazioni collegati ad eventi specifici (il recesso illegittimo e l’esercizio dell’opzione per un’indennità in vece della reintegrazione nel posto di lavoro) ma forfetizzate in modo da esplicare un’efficacia anche deterrente”.

Si tratta, del resto, dell’unico istituto attraverso cui il legislatore ha inteso monetizzare il valore del posto di lavoro assistito dalla cosiddetta stabilità reale, qual è quello alle dipendenze della Pubblica Amministrazione” (Tribunale di Ancona – Sezione Lavoro – 28 aprile 2009; Giudice Dott.ssa T. De Antoniis).

 


(D.lgs. n. 267 del 2000 )

L’illegittimità del compenso corrisposto al dirigente di un ente pubblico, non dà diritto alla ripetizione per il periodo che cade oltre la prescrizione quinquennale. 

Con riferimento al danno erariale, ai fini della quantificazione dei danni risarcibili, va riconosciuta la fondatezza della sollevata eccezione di prescrizione per la quota parte di danno delle mensilità pagate nel periodo dei cinque anni decorrenti a ritroso dalla data di notifica dall’invito a dedurre. Esso infatti è atto interruttivo della prescrizione mentre il dies a quò è dalla data dei relativi pagamenti effettuati.

(Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale Regionale per le Marche – 3 giugno 2009 n. 184;  Est. Elena Tomassini).


(artt. 2847 cc. – artt. 2484 cc. – art. 22 d.lgs. n.5 del 2003)

Con riferimento alla domanda di scioglimento di una società a Responsabilità Limitata presentata da un socio di due, entrambi con quota al 50%, “le difese della parte resistente, descrittive della situazione di contrasto tra i soci, non solo non escludono lo stato di scioglimento, ma rendono semmai evidente, a prescindere dalla imputabilità del dissidio (aspetto non rilevante in questa sede), come il conflitto sia ormai irreversibile ed impedisca di fatto  – data la composizione ‘minima’ della società – il funzionamento dell’assemblea (Tribunale di Ancona – II Sez. Civ. – 14 maggio 2009; Pres. L. Mogetta, Rel. F. Melucci).